lunedì 16 febbraio 2009

Una donna libera


 
Figura asciutta, pelle cotta dal sole, membra forti scavate e modellate dal vento, un piccolo volto solcato da rughe con due chiari occhi celesti che s'illuminano quando la sua espressione si apre in un solare sorriso, e gli anni, che sono sessanta, sembrano sparire, per restituire l'immagine di una giovane, bionda vitale ragazza inglese di Cape Town.

Schirley è comparsa nella rada di Colonia del Sacramento – dopo una notte di navigazione con un “pampero” a più di 50 nodi. Amici comuni ci avevano che sarebbe arrivata a bordo di  una piccola barca (25 piedi – poco più i 7 metri), gialla e verde, con un curioso albero, molto basso e posto quasi all'estrema prua.

Una storia esemplare: è partita otto ani or sono da Cape Town.  L'uomo con cui condivideva la vita, e con cui doveva partire per un lungo viaggio attorno al mondo, non terminava mai l'allestimento della loro barca, mancava sempre qualcosa , e cosi da dieci anni!   Stanca di questa estenuante attesa, un giorno decide di partire da sola, compra un vecchio scafo – quello che si poteva permettere - lo “Speedwell of Hong Kong” costruito nel 1952, proprio nella città asiatica, su piani del famoso architetto navale Laurent Giles - anche la barca avrebbe una storia tutta da raccontare- ed attraversa il burrascoso atlantico del Sud fino a Cabedelo in Brasile (poco più a nord di Recife).   A Cabedelo incontra Pit, un connazionale che con un catamarano di tipo polinesiano di 34 piedi auto-costruito, vuole andare in Antartide e cerca compagnia: Shirley non si fa troppo pregare dal taciturno Pit (anche lui lo abbiamo incontrato e sappiamo che carattere ha!), mette la sua barca in secco e parte per questa nuova avventura. Non raggiungeranno la penisola Antartica, ma doppieranno il “Cabo de Hornos” e dopo nove mesi saranno nuovamente a Cabedelo
- “Bello, ma durissimo!”-
Le loro strade si dividono, Shirley naviga verso i Caraibi, Pit migliora il catamarano, torna a sud, raggiunge la sua meta originale in Antartico e rientra a Cape Town.
Dopo varie avventure Shirley si ferma a Trinidad, lo “Speedwell of Hong Kong”, ha bisogno di urgenti lavori, il suo vecchio fasciame esausto fa acqua da tutte le parti! 
Pit, sempre in contatto mail con Shirley, la convince a cambiare l'attrezzatura da sloop bermudiano a giunca, più facile per un solitario, e non trova migliore soluzione, per aiutarla, che costruire il nuovo albero a Cape Town e portarlo a Cabedelo con il suo catamarano!
Con la barca attrezzata a giunca – chissà cosa ne penserebbe il povero Laurent Giles? - naviga fino a Baltimora
-”Che invero freddo!”-
Poi Bermuda, Azzorre, Canarie, Cabo Verde e nuovamente Brasile, fino al nostro incontro di questi giorni. Sempre sola, con l'unica compagnia del suo grande gatto grigio che la segue dalla partenza da Cape Town. Shirley ci racconta che durante tutti questi anni, sia l'uomo lasciato in Sud Africa, che Pit le hanno chiesto più volte di tornare con loro ma:
- “Basta uomini, cosi la vita anche se più difficile è molto più libera! -
Shirley, semplice,essenziale e discreta, ma aperta agli incontri, domina perfettamente il suo piccolo mondo in cui si sente sicura e realizzata, una vera donna libera ed una grande navigatrice, ma il giorno in cui parte da Colonia per Buenos Aires, si fa accompagnare da Roberto, un barbuto amico argentino, anche i naviganti più sperimentati, quando debbono addentrarsi per la prima volta negli insidiosi meandri del Delta hanno bisogno di aiuto!

Questo racconto, ampliato e rivisto, è anche inserito nel mio ultimo libro:



domenica 1 febbraio 2009

NAUFRAGI

Non ho mai visto una carta nautica con tanti simboli d navi affondate, come quella del Rio della Plata,
la navigazione tra Buenos Aires e Colonia del Sacrameto, in Uruguay, è uno slalom tra boe che segnalano scafi “undidos”, e bassi fondali. Mi sono sempre chiesto a cosa fosse dovuta questa ecatombe, difficilmente spiegabile, anche tenendo conto delle obbiettivamente difficili condizioni di navigazione in queste acque. Una risposta, anche se sarcastica ed ironica l'ho recentemente ottenuta, proprio a Colonia.
William, l'amico Uruguayo che mi accompagna alla ricerca di un pezzo di ricambio per il mio frigorifero, è un uomo grande con un largo viso simpatico, in cui l'occhio sinistro semi-chiuso , forse per un difetto di natura o per un incidente mai dichiarato, gli conferisce un vago aspetto da bucaniere. Durante il giro alla ricerca di un frigorista che gioca a nascondino con noi, passiamo vicino al “tailler” (laboratorio) di William, che ne approfitta per farvi una breve sosta.
E' un capannone in lamiera perduto nel nulla, circondato da sterpaglie in cui si intravedono scafi abbandonati e rottami d'auto d'epoca, all'interno, in una confusione totale di piccole barche in lavorazione, motori marini, alberi d'alluminio e attrezzature nautiche di ogni genere, spicca una teca in cristallo, in cui fa bella mostra di se, una riproduzione del “Victory” di Nelson, perfettamente restaurata e molto bella, è l'unica cosa che appare nuova ed efficiente, sebbene , come mi racconta William, sia molto antica e reduce da un restauro durato ben otto anni. Ma la mia attenzione è forse, più attratta dai rottami che dallo splendido modello, e chiedo al mio accompagnatore che motore sia, quello dipinto in verde e parzialmente smontato che vedo su un banco vicino alla teca del Victory:
“E' un Volvo, che abbiamo recuperato da una barca a vela affondata, anche quell'altro la nell'angolo lo abbiamo recuperato da un relitto, come tutti gli alberi che vedi appesi alle pareti, ma vieni a vedere cosa sto facendo qua fuori.”
Mi porta all'esterno, e mi mostra, con evidente orgoglio, lo scafo di un motoscafo in fibra di circa dieci metri, è evidente che stanno assemblandoli una coperta completa d tuga e “Flay brige” .
” Lo scafo lo abbiamo recuperato da un motoscafo affondato lungo dieci metri, la coperta da un altro, ma più grande. La abbiamo adattata alle dimensioni dello scafo, e poi monteremo il motore Mercruiser, che hai visto prima, e rivenderemo il tutto. Bisogna pur guadagnarsi da vivere!”
Mi viene spontanea la domanda al quesito che da tempo mi assillava, e domando a William, perché vi siano tanti naufragi. Con un ghigno che accentua maggiormente il suo aspetto piratesco, mi risponde:
"Porque, por nuestra suerte, los arghentinos, non saben navegar!
Allontanandoci dal “tailler”, passiamo accanto ad un altro grande capannone, sul cui ingresso spicca la scritta – Museo de los Naufragios – mi vengono alla mente i racconti dei falsi fuochi accesi anticamente, lungo le coste della Cornovaglia per attirare i velieri con la falsa promessa di un sicuro approdo per farli naufragare, e poi depredarli. Che il moderno Rio della Plata, non sia poi tanto differente?
P.S.
Gli amici argentini, che conosco come ottimi naviganti, non me ne vogliano per la frase di Wiliam, anche se a volte, ho visto molti loro connazionali, navigare in modo un poco spericolato!